domenica 25 novembre 2007

Trasferta in casa (7)


Salgo le scale a velocità folle. C'ho il cuore in gola. Se non mi viene adesso un infarto, non mi viene più. Puttana baldracca. La curva rumoreggia. I brividi si impossessano di me. L'adrenalina scorre a mille. I Vecchi Lions già stanno intonando la loro canzone. Il loro grido di battaglia. Faccio gli ultimi scalini saltando come un canguro. Poi, finalmente, lo vedo. Il campo da gioco. L'erba verde. Il compagno Ermanno Claypool disse, una volta, che del calcio amava “il profumo dell'erba e la perfezione bianca delle righe”. E' così, cazzo. Anche se è facile fare riferimenti “stupefacenti”.
Mi infilo in mezzo a magliette sudate, ascelle pezzate ed aliti fognati. Gente che fuma erba inebria l'aria di un sapore tutto giamaicano. Mi giro verso il deck 20, ma non scorgo nessuno. L'urlo della folla mi fa girare di colpo verso il campo: una buona occasione è stata fermata da un fallo di quei bastardi che ci giocano contro. Prendo il cell e chiamo Marco, che dopo tre o quattro squilli mi risponde. Non si sente un cazzo. Il rumore è fortissimo. Mi metto a urlare: “Dove siete? Non vi vedo...non vi vedo”, ma ho paura che Marco non mi senta. Provo a capire se Zelig dice qualcosa, ma la confusione è troppa. Non si sente, merda. La linea cade, impietosa. Penso a come cazzo fare a raggiungere il deck. Inoltre, puttana eva, non vedo nessuna faccia nota attaccata alla rete sotto al deck. Mi faccio tirare dai tifosi e scalo così una decina di gradini. Come al solito, i seggiolini o sono divelti o sono semidistrutti. Mentre salgo sento la vibrazione del cell nella tasca. Sul display leggo il nome ZELIG. Rispondo e, nel trambusto impossibile, distinguo la parola “bandiera”. Mi giro verso l'alto e vedo, appeso alla rete gialla alla destra del deck, un drappo tricolore. Faccio altri cinque gradini prima di scorgere il faccione di Marco e, dietro di lui, le faccie concentrate di Rosario e Nando.

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